Certi alberghi

Ho bisogno degli alberghi, questa è la verità, ma non quelli di lusso, no, quella è roba fatta per gente con i soldi, che va lì per lavoro e per scopare. No, io ho la necessità degli alberghi di terza categoria, quelli un po’ decadenti con gli armadi che si portano dentro l’odore di muffa e naftalina. Ammesso poi che ci sia, un armadio. Devo avere i mobili datati, un po’ dozzinali, con il tavolo graffiato, la sedia che dondola e tutto il resto. E mi ci perdo con quegli alberghi lì. Metto un po’ di blues in sottofondo. E mi ci perdo. E scrivo.

Io devo scrivere. Questa è la verità. Voglio dire, non è uno sfizio, è proprio una questione di sopravvivenza, tipo respirare, ecco, scrivere è quella roba lì. Ma è anche farsi del male, perché tocca andare a strapparsi qualcosa dentro, non parlo solo di sofferenze, ci mancherebbe, anche se scrivi una cazzata, una scemata qualunque, ecco, anche in quel caso, hai dovuto metterti lì e ascoltarti e farla uscire quella cosa. E non c’è niente da fare, appena la scrivi non è più tua. Questo è sicuro.

C’è stato un periodo che scrivevo in auto, mentre guidavo, cioè non è che facessi materialmente entrambe le cose insieme, mica sono così scellerato, no, guidavo e scrivevo, con la testa intendo. Non serve per forza avere carta e penna o magari una tastiera per scrivere qualcosa, no, quello è semplicemente il risultato finale. Guidavo e con la mente ero già là, che non è un posto preciso, è semplicemente “là”. Oddio, non è che andasse sempre tutto liscio, ogni tanto bucavo le uscite dell’autostrada e invece fermarmi a Parma mi ritrovavo a Luino, per dire.

Poi c’è stato il periodo dei treni, ma non quelli belli e luccicanti eh, no, i miei treni erano i regionali, quelli dei ragazzi pendolari, degli operai delle acciaierie che tornano a casa portandosi addosso la certezza che prima o poi qualcosa dovrà cambiare e l’odore della consapevolezza che non cambierà mai un cazzo di niente. Scrivevo lì, nel bel mezzo di un vagone di seconda classe, in mezzo a tutte quelle vite che mi giravano intorno e io che ne rubavo un pezzetto per me. Come quando strappi una pagina di un libro e la metti nel portafogli.

Ma negli alberghi, porca puttana, negli alberghi c’è una catastrofica dolcezza, che certe giornate come fai a resistere. Giornate quasi normali o dannatamente complicate, che stai lì nella merda fino al collo, che boh, non hai i soldi per arrivare a fine mese, la Juve ha perso, hai chiuso una storia d’amore…che ne so, cose così, normali e devastanti. Ecco, in quei giorni lì ho bisogno di stare in un albergo, a fermare il tempo. O almeno, a rallentarlo un po’. E neanche mi ricordo di mangiare, è proprio una dimensione parallela, sei tu, solo e la tua vita seduta accanto a te che si fa i cazzi suoi.

Mi sono sempre chiesto come cazzo fanno i pianisti a stare seduti davanti a tutti quei tasti, ma ore e ore, a far scorrere le dita senza stancarsi mai, cioè, mai uno che si alzi e dica “oh basta, mi sono rotto i coglioni”, no. Stanno lì, ma giornate intere eh, a creare musica, persi in quell’oceano di note. Vita e note, tutti giorni. Incredibile.
O i pittori, cazzo i pittori sono assurdi, prendono una tela bianca, un pennello e qualche colore e tirano fuori un paesaggio, un volto o comunque roba geniale. Magari hanno davanti, che ne so, una discarica e sbam! Dipingono un tramonto. Ma dove diavolo ce lo vedono il tramonto in una discarica. Devono aver dei gran casini nella testa, i pittori.

Gente strana, i musicisti, i pittori, gli artisti di strada, ma anche i pendolari dei treni, le mignotte d’alto borgo, i manager incravattati, o i ragazzetti che si baciano sui tram, quelli che rimangono appesi a un lampione aspettando qualcuno che non arriverà, o gli altri, quelli che stanno insieme da quarant’anni e ancora si tengono per mano.
Persone così, gente strana davvero. Io invece no, a me basta stare chiuso in questo albergo a scrivere di loro.

Serenata alternativa

Una finestra che dà su una via secondaria, in strada c’è un ragazzetto seduto sul cofano dell’auto a guardare quei vetri, sta pensando qualcosa e lo sta facendo più forte che può:

“Nina affacciati che ti canto la serenata. Ok, magari la serenata no, ma ho scritto una cosa che parla di te. No, non è una poesia, non sono bravo con le rime, però ecco, forse è meglio se rimani a dormire, perché a parlare faccio casino con le frasi e di sicuro non riuscirei a farmi capire. Che quando apro bocca sento questo rumore che rimbomba nella testa, come se il cuore facesse di tutto per confondermi ancora di più. E allora dormi Nina che non ti perdi granché, però mentre scrivevo mi tremavano le mani, capirai, ho già una calligrafia di merda, immagina che scarabocchi ho fatto su questo foglio, ma la penna non si fermava, come se le parole avessero una loro volontà e non riuscissero più a trattenere l’urgenza di uscire. Dormi Nina, che se dormi trovo il coraggio di lasciarmi andare, come quando mi tuffo di testa nel mare agitato, senza pensare alle conseguenze, che quelli come me non sono pratici a parlare con qualcuno senza sentirsi un coglione. Se dormi non cambia niente e questo è un pensiero tremendo e rassicurante, lo so che sembra assurdo, ma se stai dormendo ti sento qui vicino e allora tutti questi pensieri strampalati prendono forma e sorrido. E scrivo.  

Dormi Nina e lasciami inciampare in questa cosa strana che sento nello stomaco, che non la so spiegare, mi logora e mi salva e un po’ lo capisco Troisi quando diceva “voglio solo soffrire bene”, dormi e lasciami sognare, che quest’anima incasinata non riesco a capirla, ma se mi siedo davanti a un foglio bianco sento qualcosa di leggero, come un nodo che si scioglie. 

Dormi, che le notti come queste sono infinite e proprio non ce la faccio a gestirla tutta questa agitazione, Nina non lo sai, ma c’è una band heavy metal nella mia testa, comunque è sempre meglio del reggaeton, lo so, però c’è questo tizio con la chitarra elettrica che proprio non la smette di rompermi i coglioni. Che palle, ma come fanno quelli che se ne fregano? Quelli che sentono qualcosa di strano, non dico un sentimento forte, solo un accenno di affetto, vanno lì e vuotano il sacco, così, senza pensarci, come se prendessero una tachipirina. 

Io invece sto qui fuori come uno stronzo, alle tre di notte, seduto sul cofano della macchina a girarmi questo foglio pieno di cazzate fra le mani. Oltretutto l’auto non so di chi sia e già me lo immagino domani il proprietario che vede l’impronta del mio culo sulla carrozzeria, sai quante maledizioni. 

Non lo so Nina, non lo so davvero come si fa a non complicarsi la vita, non lo so quanto deve indurirsi un cuore per lasciarci in pace. Ogni tanto penso che basterebbe mandare a fanculo la paura, l’imbarazzo, la vergogna e tutta quella compagnia di nobili stronzate, forse è così che si diventa uomini, sì, credo che sia così. Basterebbe diventare un po’ più impermeabili alle emozioni, un po’ più cinici, più sfrontati con quella spruzzata di figlio di puttana che non guasta mai. 

Penso che non finirò mai di farci i conti con questa vigliaccheria che mi strozza le parole in gola, ma credo che ci voglia anche un gran coraggio per rimanere nella penombra.

Dormi Nina, io ora torno a casa che qui c’è un’umidità che mi mangia vivo. Ho scritto una cosa per te ma non è niente di importante, magari te la lascio domani, comunque non ti perdi granché.”

IL PASSO IN PIÙ

«Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«In che senso a morire?»

«A morire, hai presente quelli che stanno sulle ringhiere dei ponti, che guardano giù e un po’ lo invidiano tutto quel gorgoglio di acqua e sassi. Quelli che se ne stanno lì, come stronzi, nel bel mezzo di un ponte, a pensare che basta un passo, uno soltanto e sarebbe tutto finito. Voglio dire, li hai mai visti quelli che sono andati a morire? Lo sai che pensieri fanno? No che non lo sai, non lo sa nessuno. Quelli nelle stazioni, sul bordo del marciapiede, un metro, un cazzo di metro e giù il sipario. Sbam! Andati per sempre, rien ne va plus. È questione di scelte e di distanze. È sempre questione di distanze, quanti passi fare per arrivare alla fine del mondo, quanti farne per tornare a casa, quanto permettere a qualcuno di avvicinarsi senza rimetterci il cuore. Le distanze di sicurezza, che finché non le oltrepassi sei salvo, non dico vivo, ma solo salvo. 

Come gli viene a quelli lì di fare un passo in più? Voglio dire, lo decidono sul momento oppure c’è un piano studiato nei minimi dettagli, una cosa tipo “faccio una doccia, metto l’abito blu che cade bene, sistemo i capelli, lavo i denti, due spruzzate di profumo, salgo sul davanzale della finestra, stando attento a non rovinare le scarpe e volo giù”. Perché bisogna avere un certo stile anche per farla finita. 

Oppure no, magari ti svegli la mattina già con il cazzo girato e chi se ne frega di fare bella figura, cammini lungo via dei molini, fai un cenno con la testa a Giovanna, intenta a cambiare l’acqua ai tulipani, prendi la discesa fino alla croce del saraceno, senti i polpacci che iniziano a bruciare, rallenti e accendi una sigaretta, c’è il mercato, gente che ti sfiora, donne intorno ai banchi di frutta e di vestiti a basso costo, uomini che discutono di politica, di pallone e di certi culi che fanno bestemmiare. Dai una schicchera al mozzicone che vola giù, segui il percorso dell’acqua scorrere davanti a te, che non si vede la fine. “Ma vaffanculo va”. E salti.

Poi c’è sempre qualcosa, un rumore, un suono, il tocco di qualcuno, una cazzata qualsiasi che ti fa prendere di nuovo contatto con la realtà, sei di nuovo lì, in una sala d’attesa, alla fermata dell’autobus, nel tuo ufficio di merda o dio solo sa dove, saranno passati giusto un paio di minuti, qualcuno si sarà preso un caffè, altri avranno, che ne so, preso un taxi, altri ancora non avranno fatto un cazzo di niente, tu sei andato a morire. Niente di clamoroso insomma.

Hai capito cosa intendo? No, non credo, ma non importa».

«Sì, ho capito».

«Quindi? Quando è stata l’ultima volta che sei andato a morire?»

«Non saprei, mi dai una sigaretta?»

IL VENTOFOLLE

Ci sarebbe da chiedersi dove vanno a finire certe cose e certe persone. Quelli che partono per andare, che ne so, in Australia, o in Irlanda, o in qualsiasi altra parte del mondo, che poi non tornano più, neanche per le feste comandate. Ecco, quelle persone lì, che fine fanno? L’avranno trovato ciò che stavano cercando? Magari si sono accontentate, non ci sarebbe niente di male nell’accontentarsi, nell’ammettere di aver chiesto troppo e accettare un premio minore. Ecco, mi piacerebbe che qualcuno di loro tornasse a dirmi com’è andata, roba di cinque minuti eh, giusto per sapere la fine della storia, tutto qui.

E i palloncini? Che fine fanno i palloncini che sfuggono dalle mani e salgono su? Me lo sono sempre chiesto, li guardo salire, sospinti da un vento strano, il “ventofolle”, che qui sulla terra manda le onde cattive e tira giù santi e tempeste, ma forse lassù, dove si fermano i palloncini sfuggiti alla presa, è più comprensivo. Li guardo allontanarsi, lasciandosi dietro le strade e le case e il mare, lo fanno senza esplodere e non è cosa da poco.

Ecco, magari quelli che sono andati in Australia, o in Irlanda o in qualsiasi altro dannato posto lontano da qui sono un po’ come quei palloncini, che non abbiamo saputo trattenere. Hanno lasciato tutto e si sono affidati al “ventofolle” delle decisioni improvvise, senza esplodere. E a noi non resta che rimare qui come stronzi a chiederci che fine avranno fatto. Pensandoci però va bene così, perché tutto ciò che non vediamo finire non muore mai.

VAFFANCULO FRANCESCO

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Sono quello che ride,
quello che poi s’incazza
sono sempre distratto
quello senza corazza
devo ancora capire
questa vita cosa mi vuole dire

Sono quello che canta
Mentre guido da solo
E in questa giostra che gira
Cerco ancora il mio ruolo
In questo mondo che danza
Sento di non essere mai abbastanza

E non so cucinare
E mi perdo per strada
Sono un po’ Don Chisciotte
Però senza la spada
Faccio sempre fatica
A capire cosa vuole la gente che dica

Non sono mai puntuale
Non capisco l’inglese
E vaffanculo Francesco
Tu e le tue frasi sospese
Sento il tempo che vola
Con le parole che mi muoiono in gola

E non ho un cazzo da dire
A chi mi chiede consigli
Ho progetti a marcire
Dentro i miei ripostigli
E ho finito i cerotti
Per certi sguardi che sembran cazzotti

E mi sento stocazzo
Perché incastro parole
Mi sento come un bambino
Con le sue capriole
Ma scrivo solo cazzate
Spesso inutili come certe giornate

Forse sono normale
Forse solo un coglione
Forse sono felice
forse è disillusione
e ha proprio ragione
chi mi vuole cambiare
ma certi giorni, davvero, io non so come fare.

Tra il mento e la spalla.

Anche stanotte ho fatto l’amore sul tetto.
Ho aspettato che spegnessero le luci della città, che scendesse la quiete nelle case, nella vita frenetica delle persone. C’è un momento preciso in cui tutto si placa, quello in cui il groviglio dei pensieri si dissolve, è un attimo sospeso fra l’eco di oggi e l’illusione di domani. In quell’istante preciso salgo sul tetto, lancio il cuore in quella finestra socchiusa, prendo il violino e divento l’amante sfacciato, l’impostore arrogante. Non è solo musica, è istinto primitivo, è il connubio perfetto fra melodie, amplessi e sudore. Lo facciamo così. Ogni notte. L’amore.

Di giorno c’è troppa gente in giro, auto, tram, passanti, cazzi e mazzi e mica puoi startene a fare l’amore sulla cima di un tetto, ma di notte tutto diventa possibile. La sua finestra è lì, a portata di mano, basterebbe scavalcare un paio di balconi, roba da niente. Ma quelle sono scene da film, riservate ai coraggiosi. Quelli come me hanno l’animo pavido. Quelli come me preferiscono farsi male a distanza, preferiscono farlo a occhi chiusi, abbracciando un violino. E’ l’unico stratagemma che abbiamo per farlo senza rimpianti, l’amore.

C’è stato il tempo dei teatri pieni, con quegli occhi addosso e io su quel maledetto palco con un faro puntato dritto in faccia, che neanche riuscivo a distinguerle tutte quelle persone che stavano lì in attesa della prima nota. Facevo l’inchino, a occhi chiusi, l’archetto nella mano destra e incastravo tutta la mia vita tra il mento e la spalla. E suonavo. Scorrevano le dita sulle corde, quasi a volerle soffocare, scorreva l’archetto lungo quel manico di legno infinito, scorrevano tutti i miei rimpianti mescolati con la musica.

Ma la vita reale è altra cosa, voglio dire, non puoi avere la presunzione di capire il mondo standotene impalato nel bel mezzo di un palco con un faro puntato in faccia. Sono sparito, all’improvviso, senza dare spiegazioni. Ho smesso di suonare per i signori annoiati, per le donne appariscenti, per gli aristocratici e i morti di fame che si imboscavano ai concerti. Ho smesso di suonare per dovere e ho iniziato per farlo per gli amanti sotto i portici, per le puttane di strada, per i ragazzini impertinenti. Ho iniziato a suonare per le madri che lottano, per quelli che la vita se la sputano nelle mani, per la disperazione di certe giornate, che proprio non sai più come fare. Sono sceso da un palco e ho iniziato a vivere davvero.

Sono uno di quelli che di giorno suonano nelle piazze sconosciute, senza preavviso, mi piazzo in un angolo, e gioco a fare dio con la vita degli altri. Immagino momenti che non vivranno mai, dispiaceri e passioni che non sanno di avere. Li guardo passare, tutti quanti e improvviso la melodia della loro esistenza.

Ma è di notte che si vive davvero e allora lascio scorrere questo alveare di pensieri che mi prude in gola, salgo quassù, aspetto che la luce della sua finestra vada a morire e incastrando la vita fra il mento e la spalla iniziamo a farlo davvero. Ogni notte. L’amore.

I sognatori non hanno un cazzo da fare.

«E se loro si mangiano il mare?»
«Noi ci mangiamo il porto con tutte le barche. E se ci fanno girare i coglioni, ci mangiamo anche i pescatori».

«E se loro si mangiano i ponti?»
«Noi ci mangiamo i fiumi e le cascate».

«E se loro si mangiano i campi di pallone?»
«Noi zitti zitti ci mangiamo il codino di Roberto Baggio».

«E se loro si mangiano la musica?»
«Noi ci mangiamo gli spartiti e i rullanti. E siccome siamo figli di puttana, ci mangiamo pure il pianoforte di Ludovico Einaudi».

«E se loro si mangiano i tramonti?»
«Noi ci mangiamo le strade e i pensieri belli».

«E se loro si mangiano le risate?»
«Noi ci mangiamo le giornate piovose».

«E se loro si mangiano le piazze?»
«Noi ci mangiamo le bandiere, i cortei e tutte le rivoluzioni».

«E se loro si mangiano i teatri?»
«Noi ci mangiamo i baci delle ultime file».

«E se loro si mangiano i muri?».
«Noi ci mangiamo le frasi d’amore lasciate ad asciugare».

«E se loro si mangiano le parole?»
«Noi ci mangiamo i libri, tutti quanti».

«E se loro si mangiano le poesie?»
«Noi ci mangiamo Silvia, Rossana, Beatrice, Giulietta e visto che ci siamo, ci mangiamo anche Alda Merini».

«E se loro si mangiano i quadri?»
«Noi ci mangiamo la sposa nel vento e tutte le madonne con il bambino, ci mangiamo Frida e tutti gli amanti. E se ci fanno incazzare, ci mangiamo pure Amanda Lear».

«E se loro si mangiano le feste di paese?»
«Noi ci mangiamo tutta la banda e lo zucchero filato».

«E se loro si mangiano le domeniche mattina?»
«Noi ci mangiamo i panni stesi e una donna in cucina che canta De André».

«E se loro si mangiano la storia?»
«Noi ci mangiamo i lager, Norimberga, Marzabotto, Evita Peron E giusto per rompere il cazzo, ci mangiamo pure la motocicletta di Che Guevara».

«E se loro si mangiano l’Africa?»
«Noi ci mangiamo le mani tese e i capitani sovversivi. E per farli incazzare davvero, ci mangiamo anche il cuore immenso di Gino Strada».

«E se loro si mangiano i sogni?»
«Noi ci mangiamo le stelle e tutti i cassetti, i vetri appannati e le giornate di Aprile. E se continuano a rompere le palle ci mangiamo Firenze vista dal Piazzale».

«E se loro si mangiano le storie d’amore?»
«Noi ci mangiamo tutte le panchine, i vetri appannati e Cesare perduto nella pioggia. E siccome siamo molto cattivi, ci mangiamo pure l’addio di Casablanca nel tramonto».

«E se loro si mangiano il futuro?»
«Noi ci mangiamo quelli controcorrente, gli idealisti e tutti quelli che non si rassegnano. E anche se non servono a niente, ci mangiamo pure i sognatori, che tanto quelli non hanno un cazzo da fare».

«Va bene, ho capito, ma il tempo sprecato si conta o non vale?»
«Ma che cazzo di domande fai? Finisci di mangiare e poi mettiti a dormire. Fuori la situazione non è buona».

STORIE DI PIRATI D’ACQUA DOLCE.

Ho un debole per le persone, per le loro storie, sono un fanatico delle esistenze altrui. Penso che nessuna vita sia insignificante, spesso siamo noi a sminuirla a non coglierne le sfumature, i dettagli che ci rendono unici e interessanti,

Ci sono cresciuto con questa predisposizione alla gente. Appena mi decisi a nascere, miei genitori presero in gestione un bar, il famoso Dopolavoro Ferroviario, una sorta di circo stabile che si affacciava sui binari della stazione centrale. Un palcoscenico sul quale si alternavano prestigiatori di carte, funamboli del calcio balilla, nani ubriachi e ballerine in pensione, studenti senza libri, sognatori, fancazzisti, politicanti senza patria, rivoluzionari con le pistole ad acqua.

C’era Paolino l’ubriaco, che dopo il terzo bicchiere di bianco fermo iniziava a parlare della moglie che aveva lasciato a casa con il guardiano dei campi da tennis. Paolino lo raccontava ridendo, parlava di quell’uomo unto e grasso che si faceva la sua donna, lui lo sapeva e andava bene così. Lo diceva ridendo, con quella voce impastata e disperata.

Il mercoledì pomeriggio arrivava Vicius il tassista, alto due metri, con i capelli lunghi i tatuaggi e tutto quello che fa girare la testa alle donne, almeno così diceva lui. Si sedeva in attesa del suo compagno, un certo Mollino, passavano la serata a far volare le palline nel calcio balilla, fra birre, bestemmie e sudore. Si vociferava che il Vicius non avesse una casa, se gli diceva bene rimediava una scopata e una notte da passare in un letto sconosciuto. Così parlavano di lui, con una punta di invidia. Lui li lasciava parlare e nel frattempo pensava al figlio che la vita gli aveva strappato. Da quel giorno aveva smesso di illudersi e se la fotteva, la vita. Perché quella sì che è una gran puttana.

Il Muto era uno dei miei preferiti, lo chiamavano così perché non diceva mai un cazzo di niente. Prendeva un mazzo di carte e si metteva al tavolo. Niente, neanche una parola, ma se ti azzardavi a giocare il settebello di prima mano ti fulminava con lo sguardo e riuscivi a contare tutti i santi del paradiso che stava tirando giù. L’unica volta che lo sentirono parlare fu il 6 giugno 1978, durante la partita dei mondiali Italia-Ungheria. Erano tutti seduti a disquisire chi fosse il miglior giocatore e fra un “vaffanculo” e “c’hai la mamma maiala” il Muto si alzò in piedi e disse perentorio: «Giancarlo Giannini!», poi tornò a sedersi in silenzio, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Tutti pensarono che fosse impazzito e forse lo era davvero, ma lui Giannini l’aveva visto veramente, in quel preciso momento intendo. Nessuno lo sapeva, ma in quei giorni c’era un certo Mario Monicelli, che nessuno conosceva, che stava girando un film e, incredibile ma vero, in quel preciso momento stava fuori dal Dopolavoro e parlava con Mastroianni, quello vero eh. Nessuno ci fece caso ma l’anno successivo uscì “Viaggio con Anita” e per un attimo, alle spalle di Giancarlo Giannini e Goldie Hawn, si intravedeva la “D” verde dell’insegna del Dopolavoro Ferroviario. Era una scena di poco conto, di quelle che non aggiungono niente di particolare alla storia del film, ma a noi bastava così. Non ci importava di essere i protagonisti, ci bastava far sapere che c’eravamo, che esistevamo anche noi.

Le persone da queste parti sono rimaste più o meno così, si ritrovano ancora per risolvere i problemi del mondo fra un bicchiere di vino e una briscola parlata. Ce la cantiamo e ce la suoniamo fra di noi, le nostre rivoluzioni durano un giro di carte, siamo pirati d’acqua dolce che fanno battaglie su misura. Ma ce l’abbiamo tutti una storia da portarci dietro, che se l’avesse saputo Monicelli sai che capolavori ci costruiva sopra. Ma non importa, che quella vita lì, fatta di luci e casino non fa per noi. E chi se ne frega se ora al posto del Dopolavoro c’è un sushi bar, a noi interessa solo sapere che siamo qui, che esistiamo anche noi.

I BAMBINI VINCONO SEMPRE

Alcuni giorni fa mi sono ritrovato a parlare con un amico, padre di un bambino di quattro anni, sui vantaggi e le controindicazioni di far vincere i bambini quando giocano con gli adulti.

Ho realizzato che questo è un tema spinoso e può portare a conseguenze disastrose. Se lasci vincere deliberatamente un bambino rischi di farlo diventare un egocentrico, uno di quegli adulti boriosi, con manie di onnipotenza, convinti di essere sempre dalla parte del giusto, che spesso risultano insopportabili e grotteschi. Il padre di Salvini pare che lasciasse sempre vincere il piccolo Matteo a rubamazzo, per dire.

Dall’altra parte c’è il gruppo dei genitori incorruttibili, quelli che competono con i propri figli come Nadal alla finale di Wimbledon. Sposano la teoria che i bambini devono capire fin da subito come gira la giostra della vita, che nessuno ti lascerà primeggiare e che dovranno imparare subito a guadagnarsi il successo. Magari poi i figli diventeranno degli insicuri frustrati e voteranno a sinistra, ma questa è un’altra storia.

La verità è che ai bambini non gliene frega niente di vincere o perdere, a loro interessa solo partecipare. E poi, diciamocelo, i bambini vincono sempre.

I bambini vincono sempre perché sono degli inguaribili ottimisti, non importa se mezzo pieno o mezzo vuoto, l’importante è che ci sia un bicchiere.
I bambini vincono sempre perché si alleano fra di loro, si inventano le regole, se la cantano e se la suonano. vincono sempre perché sanno stare insieme.
I bambini vincono sempre perché…”il pallone è mio, ma se giochiamo in due è più divertente”
I bambini vincono sempre perché vedono i colori ma sono daltonici nei pregiudizi, perché fanno le squadre a seconda del colore della maglia e non della pelle.
I bambini vincono sempre perché anche se una battuta fa cagare loro ridono, non la capiscono ma ridono, perché hanno voglia di partecipare.
I bambini vincono sempre perché hanno ancora il senso della giustizia, perché se qualcuno fa un torto a un mio amico lo fa anche a me. Vincono sempre perché sono felici se qualcuno è felice e se provi a spiegare loro il concetta di ipocrisia ti guardano come Toninelli guarda una divisione a due cifre.

I bambini vincono sempre perché le regole del loro mondo le scelgono insieme, non hanno bisogno di scegliere qualcuno che decida per loro.
I bambini vincono sempre perché gli sbagli che fanno li rendono migliori.

I bambini vincono sempre perché si sforzano di ricordare, tutto, le gioie e i dolori. Perché è difficilissimo evitare di commettere gli stessi errori, ma se conserviamo un po’ di memoria, forse, ci salveremo. Eventualmente chiediamo ai bambini, che loro, in qualche modo, vincono sempre.